«Ambarabà ciccì coccò
tre civette sul comò
che facevano l'amore
con la figlia del dottore;
il dottore si ammalò
ambarabà ciccì coccò!»
Il nonsense del verso iniziale attrae magicamente e fa passare in secondo piano l’altro nonsense, vagamente pornografico, di questi tre uccelli (le civette) che fanno l’amore con la figlia del dottore.
Una delle versioni di Wikipedia riporta un terzo e quarto verso che restituiscono un po’ di senso alla filastrocca
che facevano timore
alla figlia del dottore;
Beh in effetti, gli uccellacci (del malaugurio) in effetti possono anche spaventare una giovane ragazza. E tutta la filastrocca sembra apparentemente più sensata e soddisfa le menti razionali.
Ma, sempre a proposito di nonsense, anche dare un senso ad una filastrocca è un’operazione che ha poco senso. Ma c’è chi si è spinto ancora più in là.
Il linguista Vermondo Brugnatelli qualche anno fa ha pubblicato sul suo blog un articolo che indaga sull’origine della celebre filastrocca. Lo riportiamo ad uso di mamme online consapevoli.
Per un’etimologia di am barabà ciccì coccò
(Vermondo Brugnatelli)
Una delle più note e diffuse filastrocche infantili italiane comincia con le enigmatiche parole senza senso am barabà ciccì coccò. Il seguito, costituito di norma da parole dotate di significato (anche se prive di un senso complessivo) può variare secondo le versioni. Quello che non cambia è questo inizio enigmatico. Oggi esso è completamente privo di significato, ma è legittimo pensare che alla sua origine –in altre lingue o in altre fasi di lingua– questo complesso fosse analizzabile in unità dotate di significato.
Il primo indizio che mi ha spinto a sospettare l’esistenza di una filastrocca “originale” in qualche modo recuperabile attraverso un’indagine linguistica mi è venuto da una riflessione casuale sui segmenti finali, ciccì coccò. Come ho già avuto modo di osservare di sfuggita nel corso di uno studio su certi “universali” che operano al momento di “creare parole” per scopi ludici o comunque di “inventività linguistica”, è evidente che qui abbiamo all’opera la “regola del ciff eciaff“, che consiste nel creare parole mediante una sorta di raddoppiamento, con una prima parte caratterizzata di solito da suoni vocalici chiusi e non labializzati (prototipicamente: i) e una seconda parte con vocalismo più aperto (a) e/o labializzato (o), rimanendo immutato il consonantismo.
Dal momento che questa “regola” prevede solo un mutamento vocalico, con ripetizione invariata delle consonanti, è assai verisimile che si debba risalire ad una fase con suoni velari tanto nel primo che nel secondo elemento: *[kikkì kokkò].
Ora, se la filastrocca risale ad epoca anteriore alla palatalizzazione di k davanti a i, dobbiamo pensare che essa sia estremamente antica e risalga addirittura ad epoca latina, prima del V secolo. E se dobbiamo rifarci ad epoca latina, mi sembra altamente probabile che il sintagma in questione risalga a due parole latine “dotate di significato”, vale a dire a due indefiniti: *quidquid, *quodquod. Anche se la lettura “classica” di queste parole prevede un accento sulla prima sillaba, era molto probabile che in queste forme raddoppiate fossero accentati ambedue gli elementi. Non a caso l’esito “normale” in italiano di quidquid è checché e non *chécche.
Se l’ultima parte di questo complesso “senza senso” può essere spiegata a partire dal latino, è ragionevole supporre che anche per la prima parte si possa sperare di avere lumi partendo dalla lingua latina.
In am barabà colpisce l’ossitonia dell’ultimo elemento, dal momento che di norma le parole latine non avevano mai l’accento sull’ultima sillaba, a parte casi particolari (come, probabilmente, i pronomi raddoppiati appena visti) nonché, ovviamente, i monosillabi. Se si cerca un monosillabo per spiegare la parte finale del sintagma, dovremo isolare bà o semplicemente à, e quest’ultima soluzione è quella che ci fornisce una parola latina, ovviamente ipotizzando, come in *quodquod > coccò, la caduta di una consonante occlusiva finale. Quindi: *(h)ac. Questo pronome femminile all’ablativo sarà probabilmente da legare con i suoni precedenti: *ab hac.
Un monosillabo analogo (con una nasale dopo la vocale) potrebbe spiegare anche la prima sillaba am, di norma pronunciata tonica e con una netta cesura rispetto a ciò che segue. E se in *hac avevamo un ablativo, qui avremo un accusativo: *hanc.
Rimane così un ultimo segmento bar(a), che in latino non vuole dire nulla. Ma non bisogna dimenticare che la b- iniziale potrebbe essere stata influenzata dalla bsuccessiva (di fatto il sintagma barabà appare sincronicamente formato con una sorta di raddoppiamento con troncamento dell’ultimo elemento ripetuto), per cui è lecito pensare a una b esito di un’assimilazione a distanza, a partire da un suono simile ma non identico, per esempio la sorda p. E para è una parola latina, imperativo di un verbo transitivo che ben potrebbe giustificare l’accusativo iniziale.
Ipoteticamente, dunque, si potrebbe ricostruire, alla base della filastrocca italiana am barabà ciccì coccò una filastrocca latina *hanc para ab hac quidquid quodquod. Non è che la filastrocca latina offra molto più senso di quella italiana, ma questo è un dato costante delle filastrocche infantili (tipico esempio è il seguito, in “parole italiane dotate di senso” della stessa filastrocca). Il nome femminile singolare cui si allude con i due pronomi potrebbe essere manus, dal momento che di solito si tratta di una “conta”, durante la quale si passano in rassegna con la mano i partecipanti ad un gioco man mano che si scandiscono le parole della filastrocca. Se poi parare avesse già avuto, nel parlato infantile, il significato di “riparare, proteggere” che oggi ha in italiano, avremmo attestata una sorta di “schermaglia” in cui una mano doveva “ripararsi” da un’altra, quella di chi effettuava la conta.
Se il ricorso al latino per spiegare elementi incomprensibili di filastrocche infantili può sembrare un po’ azzardato, ricordo che da una parte è, sì, difficile conseguire certezze e seguire con precisione i percorsi delle filastrocche o di semplici spezzoni di frase nel tempo e nello spazio, ma dall’altra è sicuro che spesso questi testi, dall’aria di estemporanea creazione infantile, mostrano indubbi collegamenti con le più lontane e insospettate culture. Per fare un esempio, sono sicuro che molti lettori troveranno, come me, familiare, almeno nella traduzione italiana, questo incipit di filastrocca infantile raccolta più di un secolo fa al Cairo da I. Goldziher (1879: 614):
Ha buffa — mutlaffa | Ha buffa — ravvolta | |
tlât xelâxil | tre sonagliere | |
âlâ s-s’offa | sul sofà | |
wâh’iduh tescinn | una che suona | |
we-wâh’iduh terinn | l’altra che tintinna | |
we-wâh’iduh teqûl… | l’altra che dice… (ecc.) |
Per chi pensasse che si tratta di una coincidenza, riporto qui anche un incipit tunisino (Houri-Pasotti, Saada 1980: 136-7):
ellâra u bellâra | Lara e Bellara | |
we-d-djeyja n-naggâra… | e la gallinella ruspante… |
Ora, Ara Belara / descesa Cornara… era l’incipit di una celebre “conta” milanese del secolo scorso, dal significato così oscuro che il Porta se ne servì per tradurre il Papè Satan, papè Satan aleppe della Divina Commedia. Quale sarà il testo originario? Quello milanese con descesa o quello tunisino con dejeyja“gallinella”? E attraverso quali vie, quali contatti si può pensare che la filastrocca abbia viaggiato?